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© Il presente testo presenta alcuni brani riassuntivi tratti dal testo "il sufismo nei viaggi di Ibn Battuta" di Nazzareno Venturi, edizioni Tipheret  

 

Ibn Battuta è il Marco Polo dell'Islam. Nacque a Tangeri , in Marocco, nel 1304 e già a 21 anni, dopo aver studiato legge nel paese natale, intraprese un  lungo viaggio che lo portò fino in Cina. Le sue avventure sono descritte nella Rihla,  non scritta di suo pugno, ma da  Ibn Juzayy al quale le raccontò durante numerosi ed amichevoli incontri. Ibn Juzayy era un letterato assoldato dal re proprio per questo compito: aiutare Ibn Battuta a stendere le sue memorie nel modo più accurato, ma accanto a resoconti genuini in cui il nostro esploratore dice di non ricordare nomi di persone o paesi e talvolta confonde le esatte datazioni, aggiunge del suo, versetti poetici  e descrizioni riprese da altre cronache. Il lavoro di "ripulitura" per individuare il corpo autentico e integrale della narrazione, non sempre è facile tanto più che nelle trascrizioni posteriori potrebbero esserci state ulteriori aggiunte come, al rovescio, ci sono stati numerosi tagli e riassunti in versioni ridotte che circolavano soprattutto nel nord-Africa. Già tra i contemporanei di Ibn Battuta c'era chi metteva in dubbio la sua buona fede : alcuni episodi ora   accertati o considerati verosimili, sembravano  stranezze incredibili e sbruffonerie. Di certo Ibn Battuta non manca di incensarsi come illustre studioso e giurista in un narcisismo che, come sempre, nasconde la realtà. Egli era istruito, ma nulla più. In una madrasa (università) affermata, a confronto dei luminari del tempo, i suoi limiti culturali sarebbero balzati evidenti.  Gli incarichi prestigiosi che ebbe, come a Delhi ed alle Maldive,  sono dovuti a circostanze particolari e soprattutto perché mancavano professionisti di rilievo in campo accademico, giuridico e amministrativo. Inoltre Ibn Battuta si rende poco attendibile incensandosi spesso e volentieri, soprattutto come difensore della moralità, custode integerrimo della legge coranica raccontando  episodi autobiografici  in cui  rivela invece una buona dose di bigottismo e ristrettezza mentale. Che poi abbia disseminato  tutto il il dar al-Islam di suoi  figli, mogli e concubine usa e getta, che si sia servito di amicizie e conoscenze solo per i suoi scopi ambiziosi ed abbia tramato nell'ombra per temporanee paranoie di potere, non lo turba minimamente. Nei suoi racconti si preoccupa di mostrarsi uomo devoto, ed effettivamente, la Rihla può essere vista come un via vai di pellegrinaggi a luoghi sacri, abbazie sufi (tekkè), a maestri ed eremiti . Personaggio dunque contraddittorio questo Ibn Battuta, pio e severo musulmano per mantenere una immagine esemplare davanti a sé e agli altri, ma in diverse circostanze poco attento al suo prossimo, se non ai nobili (operazione di facciata naturalmente)  per poterne  sfruttare l'amicizia. La Rihla descrive anche il viaggio di un avventuriero alla ricerca di successo (nei corretti limiti legittimo)  che, quando raggiunto, viene ostentato pesantemente. Può emergere una figura detestabile e spocchiosa da quanto detto, ma non è così. Nonostante tutto  è proprio la sua simpatia, la capacità di entrare subito in relazione  con gli altri,   l'intraprendenza, l'intelligenza di trovare quello che serve al momento giusto a portarlo in un'avventura meravigliosa da un grande oceano all'altro, piacevole da rivivere, anche oggi.

L'Islam, con la sua visione globale,  aveva unito diversi paesi rispettando, in genere, gli usi e costumi locali e le minoranze . La legge islamica e la lingua coranica, l'arabo, erano il tessuto connettivo di diverse realtà. Un musulmano insomma, da un capo all'altro del mondo, respirava aria di casa. Anche nei posti più lontani,  dalla Cina confuciana all'Europa cristiana, si trovavano città portuali con comunità musulmane dedite al commercio. Ibn Battuta  viaggiò nel clima della pax mongola quando i nuovi monarchi si convertirono all'Islam ed assorbirono nelle loro corti l'intelligenza musulmana. Dopo i massacri della furia mongola la ricostruzione  veniva garantita dalla vitalità del commercio ed è sulle sue rotte  di tutti i paesi che ritroveremo il nostro emblematico viaggiatore.

La nostra storia comincia così, nel 1325, quando il  ventunenne Ibn Battuta lasciò il Marocco per adempiere il dovere musulmano di compiere almeno una volta nella vita, se possibile, il pellegrinaggio alla Mecca. Lo seguiremo tralasciando molti aspetti politici, culturali, etnici e i particolari delle vicende personali che racconta, per soffermarci sui suoi incontri con personalità mistiche.

Dopo aver soggiornato alla corte di Tunisi e guidato al suo primo incarico, come qadi (giudice)  la carovana diretta al Cairo, in capo ad  8/9 mesi aveva percorso tutta la costa dell'Africa affacciata sul mediterraneo. Arrivato  ad Alessandria d'Egitto rimase per alcuni giorni con un venerato sufi  , Burhan al-Din, il quale gli consigliò di andare in India a trovare due suoi confratelli  eppoi, un terzo in Cina. Viaggiare non è solo un dovere per i sufi ma è consigliato ai postulanti, soprattutto a coloro che sono rigidi e genitorializzati nelle idee. L'adattamento alla realtà sempre mutevole obbliga a rivedere i vecchi schemi mentali  aprendo il cervello a nuove potenzialità. Ibn Battuta, da questo punto di vista, aveva un gran bisogno di viaggiare e pure gli piaceva per cui, con entusiasmo accettò l'invito pregustando il giorno in cui avrebbe  portato i saluti del vecchio a chi lo attendeva a distanza di migliaia di chilometri. A fargli crescere il senso del meraviglioso ci si mise pure un altro shaik sufi di Fuwa che gli predisse la riuscita del viaggio in India. Caricato dal senso del destino o da una missione spirituale, il giovane cominciò a considerare il pellegrinaggio solo una tappa di un percorso che lo avrebbe portato molto lontano.

Al Cairo Ibn Battuta rimase entusiasta dell'ospedale, lo  giudica indescrivibile per la sua bellezza architettonica, ma il meglio stava altrove: ricchi e poveri ricevevano gratuitamente le massime attenzioni e cure. Si utilizzava perfino la musicoterapia. Nelle strutture interne non mancavano  bagni, biblioteche, aule per conferenze.  Del resto la medicina nell'Islam era avanzatissima rispetto ai paesi cristiani, per due motivi. Quello ideologico: la sofferenza nell'Islam non è vista come un valore in sé ( anche se può diventare un agente evolutivo se il soggetto la elabora consapevolmente), essa non caratterizza la condizione umana  (nessun peccato originale e colpa collettiva da espiare, per l'Islam) per cui in tutti i modi ha da essere vinta sia essa fisica, psichica e sociale (es. la sofferenza causata dalla fame o da condizioni oppressive di vita ). Al fine di vincerla non la si deve nascondere nè emarginare. Quello pratico: i governi dell'Islam facevano a gara per sovvenzionare istituzioni ed opere benefiche, consapevoli che solo esse rimangono nella storia e con loro il nome ed il prestigio del benefattore.

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Nuovi amici e  compagni di viaggio spuntano fuori all'improvviso dal nulla: lo sa chi è abituato a viaggiare . Storie intrecciate come fili su un tappeto, sincronicità di incontri a dare un significato, una direzione al caso. Fortuna e abilità, comunque, hanno permesso ad Ibn Battuta di avere sempre,  o quasi, una persona fidata  vicino a sé , così anche durante l'attraversamento degli impervi sentieri tra le montagne rocciose  che separano la Mesopotamia dall'altopiano iranico. Quando raggiunse Baghdad vide l'ombra della città  di un tempo, ma comunque in ripresa, anche grazie ai commerci dei genovesi e  dei veneziani nella regione.

A Baghdad,  famosa in tutto l'oriente, era ancora viva la memoria dell'olocausto mongolo. Città fiore all'occhiello dello stato Abasside quando lo sciismo era dominante nell'Islam (detta fazione  considera fondamentale il ruolo dei discendenti diretti del profeta, gli imam, il dodicesimo ed ultimo dei quali si sarebbe occultato dal mondo visibile) ma con la sua conquista da parte dei turchi Selgiuchicidi nel 1055 il sunnismo (il quale dà importanza primaria alla sunna, ossia alle tradizioni riguardanti il Profeta  per regolare il comportamento sociale ed interpretare il Corano) prese sempre più campo inarrestabilmente (oggi i sunniti rappresentano il 90 % dei musulmani). Lo stesso al- Ghazali, elevato filosofo sufi,  si adoperò nelle università di Baghdad per diffondere il sunnismo, più laico e democratico. Resistenze sciite si organizzarono con la setta degli assassini (aschaschin=coloro che fumano aschisch) con azioni di terrorismo e di omicidi mirati. Non riuscirono i Selgiuchicidi a reprimerli bensì i mongoli che nel 1258 conquistarono Baghdad. Essi  rasero al suolo non solo le infrastrutture civili, agricole e cittadine, come se fossero state ai loro occhi inutili impedimenti ai pascoli (la loro cultura era nomadica, basata sull' allevamento di mandrie ) ma "ogni cosa che si muoveva", così riportano le cronache,  una caccia grossa in cui gli istinti erano liberi di manifestarsi a piacere .

La sensazione di desolazione, più ancora della rabbia che si prova quando, dopo essersi impegnati in un lavoro ben riuscito, lo si vede distrutto per un qualsiasi motivo, a livello collettivo è quella  avvertita nel veder sfumati secoli di civiltà da una brutale quanto fulminea invasione. Lo sgomento doveva opprimere ciascun animo sensibile e colto : opere architettoniche, monumenti bellissimi e  soprattutto decine e decine di migliaia di persone annientate dalla furia di un popolo senza nozione di civismo evoluto. Ma non fu un genocidio programmato per motivi razziali o religiosi. Era l'espandersi di chi non riconosceva altro della propria tribù, del proprio branco avido di terre da conquistare.  Il terrore dei sopravvissuti delle città distrutte dall'avanzata, contagiava le restanti sulla strada dell'invasione, facendo sì che queste, per paura di subire la stessa fine, aprissero le porte ai conquistatori. Ma è proprio nella scarsità di cultura  dei  mongoli e dei loro capi che si innesterà nuovamente la intelligenza dei vinti. I mongoli furono costretti per necessità (non sapendo cosa e come fare) a lasciare l'amministrazione delle terre a funzionari turchi e persiani  e spesso divennero loro stessi musulmani. Sulle rovine venne così  ricostruito  quello spirito di civiltà internazionale proprio dell'Islam. Era la pax mongola. A tesaurizzare l'Islam saranno da allora i turchi coi loro cugini mongoli civilizzati, non più gli arabi.

Durante il tragitto Ibn Battuta si fermò a Umm Ubaida per visitare la tomba dello shaik  Ahmed ibn al Eifa'i, fondatore nel XII secolo  dell'ordine nel quale si era affiliato a Gerusalemme. Anche questa visita potrebbe derivare da un voto fatto in precedenza. Nella tekke conobbe  un discendente dello shaik ed assistette al rito dei Rifai'j. Ibn Battuta lo descrive  intriso di elementi  fachirici  assolutamente non consoni allo spirito del  sufismo autentico. L'origine del  sufismo, è fuor di dubbio si perde nella notte dei tempi, laddove  lo sciamanesimo nel suo rapporto con l'invisibile e nella ricerca dei segreti (anche medicinali) della natura costituiva la primordiale esperienza del sacro, ma di questo è un aspetto evolutivo già filtrato dai suoi elementi spuri ed infantili (può comunque consapevolmente utilizzarli).

Timpani e tamburi iniziarono a imporre il loro ritmo ed i sufi presero a danzare. Ci fu una pausa per la preghiera del tramonto e per una cena a base di focacce di riso, datteri, latte e pesce. Dopo la preghiera della sera era il momento  dello zikr con le sue litanie mistiche . Nel frattempo altri sufi diedero fuoco ad una catasta di legno, ed inebriati ci si gettarono sopra danzando e rotolandosi finché il fuoco non fu spento. Alcuni presero un grosso serpente mordendogli la testa fino a spolparla. Insomma la consueta delicatezza delle litanie, unita alla forza vitale dei ritmi e delle danze, preambolo di un intimo contatto col divino, sfociava invece  in stati di trance e di esaltazione non pertinenti al misticismo. Ibn Battuta non commenta ma, fatti in fretta i bagagli, si allontanò di buona lena. Pochi giorni dopo, passata Bassora lo intenerì  un sufi dedito all'eremitaggio,  una pratica, anche questa, non normale. Il sufismo evita gli eccessi e le costrizioni innaturali, pertanto, non prescrive l'ascetismo solitario o monacale, è previsto  invece periodicamente un ritiro spirituale, mai l'isolamento continuato: il sufi non è del mondo ma è nel mondo. Questo shaik invece se ne stava tutto l'anno nelle paludi vivendo di pesce. Ibn Battuta lo trovò seduto nei pressi di una moschea in rovina, gli chiese la benedizione e questo gli offrì anche un buon pasto a base naturalmente di pesce. Si trovò così bene con lui che meditò di mettersi a suo servizio per il resto della vita. Finita la commozione e  ormai a pancia piena, finì pure il proposito, e rieccolo nuovamente in viaggio.

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L'epidemia aveva avuto il focolaio iniziale nelle steppe dell'Asia centrale e si presentava in due forme: quella bubbonica che produce tumefazioni diffuse in tutto il corpo e quella polmonare, più grave,  trasmessa per contagio umano diretto con un decorso  rapidissimo ( l'ebola potrebbe essere lo stesso virus ripresentatosi di recente). La popolazione delle   città venne ridotta di un terzo, dall'Inghilterra alla Cina. Mentre nei paesi cristiani si cercava un capro espiatorio (migliaia di ebrei furono massacrati) ed una giustificazione teologica come punizione divina, nell'Islam non si addossò a nessuno la colpa e ci si adoperò affinché migliorassero le condizioni di igiene ( già la scienza islamica sospettava la presenza di microscopici esseri,  capaci di contaminare alimenti e fluidi, passando così  da un organismo all'altro) e  applicando i rudimentali mezzi di vaccinazione. Ma la peste nera arrivò con una forza invasiva tale da essere incontrastabile, anche nel più civile dar al-Islam.

Ibn Battuta si trovò nel mezzo di questo clima apocalittico, vedendo ogni giorno centinaia di morti. Riuscì comunque ad arrivare alla Mecca il 16 novembre 1348, dove rimase per quasi cinque mesi in attesa dello hagg, ringraziando Iddio di non essere stato ancora toccato dalla morte nera. Si diresse poi, soggiornando presso i sufi, a Medina, Gerusalemme, nel Sinai ed infine al Cairo. Ritrovò questa città disastrata dalla peste e dalle lotte intestine di potere. Salpò dall'Egitto su una imbarcazione tunisina e seguendo le coste nordafricane arrivò a Gabes, da lì a Tunisi poi a Cagliari ed infine, passando nell'entroterra per Fez, a Tangeri.

Ibn Battuta quasi sorvola il suo ritorno al paese natale, dice solo di aver visitato la tomba della madre. Non ci parla dei suoi sentimenti e delle emozioni provate nel non trovare più, nella propria vita, tante persone care. Un sufi, del resto, vive consapevole della morte, come se fosse già morto, nel fluire delle generazioni. Il copricapo dei mevlevi rappresenta la propria tomba. La forza sta nel non abbattersi quando vengono a mancare i riferimenti affettivi, nel rimanere accanto alla sorgente dell'Unico nella buona e nella cattiva sorte, nella fede, anche se il mondo crolla sotto i piedi. Il suo mondo dell'infanzia, i volti e i colori d'un tempo, non c'erano più. La peste continuava ad infuriare per cui i ritmi quotidiani erano sconvolti dappetutto. Si fermò pochi giorni a Tangeri prima di dirigersi verso lo stretto, a Ceuta, dove soffrì di un ennesimo attacco di malaria. Rimessosi, si imbarcò per Gibilterra dove i musulmani avevano  resistito all'assedio di re Alfonso di Castiglia e da lì verso i monti e le campagne Andaluse   ancora protette dall'Islam. Visitò, pieno di ammirazione, il regno di Granada, espressione del meglio delle raffinatezze artistiche, della ricerca culturale e scientifica del tempo. Il rispetto delle minoranze ebraiche e cristiane era garantito e la popolazione godeva dei fondamentali diritti umani. Quando sul finire del 1400 Granada crollò sotto i colpi dei cannoni di  Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona tutto ripiombò nell'inciviltà. Vennero calpestati quei diritti, tra cui la libertà di pensiero, maturati in secoli di storia e   profanate e distrutte diverse  bellezze artistiche sotto l'egida della santa inquisizione cristiana. Ma in modo nascosto, le conoscenze e lo spirito più evoluto di intendere la civiltà, continuarono a sopravvivere. Eppoi non esiste solo un contagio fisico, come quello provocato dai virus, ma anche quello emotivo ed intellettuale, ancor più inarrestabile. Ibn Battuta ricorda di aver visitato nel regno di Granada diverse tekke sufi e aver conosciuto alcuni sufi mendicanti, provenienti dalle regioni di tutto il dar al-Islam. Erano fratelli che vivevano in letizia e povertà, vestiti con un semplice saio rappezzato e amavano pazzamente la natura e il suo divino artefice. Anche Francesco d'Assisi aveva sentito suo questo stile di vita.

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Nulla si sa della vita di Ibn Battuta dopo la stesura del libro. Ma conoscendo il suo passato c'è da credere che non si ritenne mai un...pensionato. Qualche shaik sufi, forse, lo avrà incoraggiato a dirigersi verso altre mete, per consumare ancora sotto i piedi l'orgoglio esagerato di sentirsi importanti, per aguzzare la vista oltre i limitati confini di quanto ci è stato consegnato come sacrosanto, o forse divenuto shaik lui stesso, indifferente da chi lo considerava un bugiardo e da chi lo onorava, avrà cominciato a portare in giro quell'amore di cui il sufismo vive e  che si dischiude soltanto quando si è visitato il posto più lontano tanto è vicino: il proprio cuore.

 

 


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