La danza dei dervisci giranti (il Semà dei Mevlevi)

Comune di Pistoia, Sala Sinodale - martedì 6 luglio 1999, ore 18.00
Conferenza del prof dott Gabriele Mandel:

Il Semà (o danza mistica dei dervisci giranti) è il dhikr rituale dei Mevlevi, i sufi della Confraternita fondata da Jalâl âlDîn Rûmî, detto Mevlana (nostro Maestro). I sufi, o dervisci, sono i mistici dell’Îslâm. Trovo quindi necessario citare alcuni versetti del Corano per chiarire, in breve, i caratteri dell’Îslâm; e aggiungerò naturalmente alcuni cenni sui sufi e su Rûmî, per poter infine parlare dei significati essoterici ed esoterici del Semà.
L’Îslâm è contenuto nel Corano, e tutto ciò che non è coranico o è contrario al Corano non è Îslâm. Dice il Corano: (2ª177) La religiosità non consiste nel volgere il vostro volto verso oriente o verso occidente. La religiosità consiste [...] nel dare dei propri beni ai parenti, agli orfani, agli indigenti, ai viaggiatori, ai mendicanti, e per la liberazione degli schiavi; nell’osservare la preghiera, nel versare l’elemosina legale. Sono caritatevoli quelli che rimangono fedeli agli impegni assunti, che sono perseveranti nelle avversità, nel dolore e nel momento del pericolo. Ecco le genti sincere.
(25ª63-76) Ecco come sono i servi del Misericordioso: camminano sulla terra con umiltà; quando gli ignari si rivolgono loro, dicono loro: «Pace». Passano le notti pregando il Signore [...]. Quando dispensano, non sono né prodighi né avari, poiché il giusto sta nel mezzo; e non invocano altra divinità accanto a Dio; e non uccidono anima alcuna se non secondo diritto [di legittima difesa], perché Dio l’ha proibito; e non compiono atti osceni; chiunque lo fa incorre nel peccato, avrà un castigo doppio il giorno della resurrezione, e rimarrà oppresso dall’ignominia, a meno che non si penta, creda e compia opera buona; perché a quelli Dio muterà il male in bene - poiché Dio è perdonatore, compassionevole. E non testimoniano falsamente, e passano nobilmente attraverso le vanità; e quando i versetti di Dio sono recitati non rimangono sordi e ciechi. E dicono: Signore, da’ a noi, alle nostre mogli, ai nostri discendenti, la serenità; e fa’ di noi un esempio ai fedeli».
E quale deve essere l’atteggiamento del musulmano nei confronti delle altre religioni? Dice il Corano:
(2º 62) Sì, i musulmani, gli ebrei, i Cristiani e i Sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel Giorno ultimo e compiuto opera buona, per costoro la loro ricompensa presso il Signore. Su di essi nessun timore, e non verranno afflitti.
(2ª136) Dì: noi crediamo in Dio, in quel che ci ha rivelato, e in quello che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle Tribù, in quel che è stato dato a Mosè e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti dal loro Signore: noi non facciamo differenza alcuna con nessuno di loro. E a Lui noi siamo sottomessi.
(5º 68-69) Dì: Genti del Libro, sarete sul nulla fintanto che non seguirete la Thora, il Vangelo e ciò che vi è stato rivelato dal vostro Signore [...]. Sì, i musulmani, gli Ebrei, i Sabei, i Cristiani - chiunque crede in Dio e nel Giorno ultimo e compie opera buona - nessun timore per loro e non verranno afflitti.
In effetti il Corano dice chiaramente: (45ª27-28) La signoria del cielo e della terra appartiene a Dio. E quando giungerà l’ora ultima, allora i facitori di vanità si perderanno. E vedrai inginocchiata ogni comunità; e ogni comunità sarà chiamata davanti al suo Libro. [E sarà detto loro:] Ecco, ora verrete retribuiti secondo ciò che avete fatto.
Ed ancora: (5ª48) Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità religiosa; non è così, per provarvi in ciò che vi dà. Gareggiate dunque fra di voi nelle buone opere; poi tornerete tutti a Dio, ed Egli vi informerà su ciò in cui voi divergete.
(9ª6) Se un idolatra ti chiede asilo, concedigli asilo. Ascolterà la Parola di Dio. Poi fallo giungere in un luogo per lui sicuro. Ciò perché in verità è gente ignara.
(2ª256) Nessuna costrizione in fatto di religione: la giusta direzione si distingue dall’errore, e chiunque rinnega il Ribelle e crede in Dio ha afferrato l’ansa più solida, che non si spezza. Dio sente e sa.
(18ª29) La verità emana dal Signore. Creda chi vuole, non creda chi non vuole. (23ª62) Noi non costringiamo nessuno, se non secondo le sue capacità. E nessuno verrà leso, poiché è presso di Noi il Libro che dice la verità.
Junaid - Maestro sufi del IX° secolo - disse: «Il colore dell’acqua è il colore del suo recipiente», intendendo che tutte le religioni sono eguali; differiscono per ambiente, nome e ritualistica, ma non possono differire nella sostanza. La divinità, assoluta, non può essere contenuta in una cosa perché è l’origine - e l’essenza - di tutte le cose, e quindi anche di tutte le religioni. Più ci si avvicina a Dio, e più si capisce che tutte le religioni sono tentativi per avvicinarLo».
Ecco quindi il concetto Îslâmico:
 l’EBRAISMO è la religione della speranza;
 il CRISTIANESIMO è la religione dell’amore;
 l’Îslâm è la religione della fede.

Cominciamo ora a introdurci nell’aspetto gestuale delle manifestazioni religiose Îslâmiche, con un accenno alla preghiera.Nel suo svolgersi la preghiera islamica ha varie posizioni susseguentisi, che alternano armonia, ritmo e simmetria: posizione ritta, inchino, inginocchiamenti, prosternazioni; ciascuna accompagnata da versetti coranici e da formule determinate.
 L'accompagnare le parole specifiche della preghiera con i gesti, mantenendo così la mente impegnata sia nei testi recitati sia nei movimenti, fa sì che l'orante non si distragga e non divaghi.

Dice inoltre il Corano: (2°62; 5°69, ecc.) Chiunque crede in Dio... e compie opere buone. Credere in Dio non basta, la vita contemplativa non è sufficiente: occorre anche operare il bene. Ecco: la preghiera musulmana si compone di fede in Dio e di Azione, per ricordare che la religione impone la meditazione del Corano ma anche il ben operare.
Ma ancor più: noi siamo un "riflesso" di Dio. Dio nella sua qualità di “Creatore” (e solo Dio) “crea”. Usando termini che siano comprensibili alla mente umana anche se enormemente restrittivi per la Realtà divina, possiamo dire che con l'azione Dio crea l'energia e con il pensiero crea le leggi che la regolano. Coordinando l’energia, le leggi le permettono di costituirsi nel mondo fenomenico, che noi erratamente riteniamo materia (sia chiaro: il mondo fenomenico è formato da atomi, che a loro volta sono formati da quanta di energia, non di materia. L’atomo non è materia, per cui la materia è illusione umana). La preghiera Îslâmica, unendo il pensiero (i testi) e l’azione (i movimenti), rammemora e onora questa realtà, origine di tutto il nostro essere e di ogni essere, in questo mondo fenomenico che è solo riflesso dell’unico sussistente, Dio.

 

Veniamo ora al sufismo, l'aspetto più mistico dell'Îslâm. I Sufi sono organizzati in confraternite (si possono definire l'equivalente dei frati della religione cattolica) e costituiscono tutta una serie di consorterie di pensiero che sono state alla base di scienze e speculazioni metafisiche anche dell'Europa. E' quindi auspicabile che i valori del sufismo vengano conosciuti anche dai non musulmani, se è tempo che siano conosciuti da quanti seguono etiche che hanno lo scopo comune di elevare l'umanità, di creare un mondo di pace, di tolleranza, di fratellanza illuminata universale. I Sufi infatti, partendo - come ogni musulmano veramente tale - da una lettura corretta del Corano, dall'applicazione totale dei concetti coranici in fatto di tolleranza interreligiosa, di comportamento etico corretto, di consapevolezza dell'unicità assoluta di Dio, seguono poi un cammino di ricerca mistica sempre più approfondita, di ricerca costante del divino, consapevoli anzitutto del fatto che Dio solo sussiste, mentre noi siamo soltanto un riflesso della Sua qualità di Creatore; essi superano il contingente del rituale religioso comune, per giungere ad un annientamento estatico in Dio attraverso un lungo cammino di perfezionamento interiore. Ecco allora il dhikr, rito con modalità differenti secondo le varie confraternite, costituito da pensiero, ritmo, simbolo e movimento, canto, danza e parola, nei sette gradi dell'evoluzione mistica.
   Sorte dalla lettura culturalmente progredita del Corano precipua degli Iraniani, in unione con tecniche filosofico-sciamaniche dei Turchi, le correnti sufiche nacquero nell'Asia centrale e dai Turchi vennero diffuse in tutto il mondo islamico. Emersero Ordini che promossero correnti ricche di pensatori eminenti; ma in Arabia e presso alcune popolazioni arabofone certe confraternite dei Sufi degenerarono in correnti politiche integraliste o di bassa spettacolarità a carattere pseudo-magico.

Ma l’etica dei Sufi (come giustamente osserva il giudice Said âlÂshmawì, grande giurista Îslâmico contemporaneo) afferma che la religione non può essere utilizzata come politica poiché la religione eleva mentre invece la politica corrompe, limita, divide, uccide. Né si può accettare una formula religiosa spinti dall’ignoranza, dalla paura o dal preconcetto. La vera religione - in questo caso il vero Îslâm - si basa su due principi: fede in Dio e rettitudine nel comportamento. L’etica del Sufismo è da secoli impegnata in questo conseguimento, e si propone come risoluzione della ricerca di identità dell’Îslâm che nelle plurime e a volte perfino aberranti o inquinate manifestazioni oggi rischia di allontanarsi dai precetti coranici così come ne sono lontani (pur proclamandosi invece musulmani) vari capi di Stato del periodo attuale. Il sufismo, appunto seguendo alla lettera i dettami del Corano, avvicina l’uomo a Dio attraverso l’avvicinamento dell’uomo a tutti gli altri uomini, grazie alla tolleranza per ogni pensiero differente dal proprio, al rispetto per l’individuo ma anche per i suoi diritti e per il suo ambiente. Sin dal XII° secolo i Sufi hanno propagandato il motto «libertà, eguaglianza, fratellanza». Questo nonostante le persecuzioni da parte di dittatori, di ulema corrotti, di teologi limitati. Persecuzioni che sono state esemplate dalla figura di âlHallj (858-922), uno dei poeti mistici più eminenti dell’umanità tutta.
Personaggio di spicco per la comprensione dell’etica sufica è proprio Jalâl âlDîn Rûmî, il Dante Alighieri della gente turca, uno dei più grandi mistici dell’umanità e fondatore, come già ho detto, della confraternita dei Mevlevi. Nato a Balkh (Âfghânistân) nel 1207, morì a Konya (Turchia) il 17 dicembre del 1273. Di lui il professor Halil Cin, rettore dell’Università Selciukide di Konya, ha scritto: «Rûmî, superando le frontiere religiose del pensiero turco e dell’Îslâm, è simbolo di un amore, di una tolleranza e di una pace indirizzati a tutta l’umanità. Trova la fonte dell’ispirazione nell’Îslâm e nella cultura turca; li esprime ed amplifica, e li offre a tutti senza distinzione alcuna, mentre la maggior parte dei conflitti fra gli uomini deriva appunto dalla mancanza d’amore, dall’egoismo, dal fatto che non è dato alla persona umana il valore che merita».
Il messaggio di Rûmî trova veramente l’ambito universale nella quartina che leggiamo all’ingresso della Mevleviyya di Konya:
 «Vieni, vieni, chiunque tu sia vieni.
 Sei un ateo, un idolatra, un pagano? Vieni.
 Il nostro non è un luogo di disperazione,
 e anche se hai violato cento volte una promessa... vieni»

Ebbi a dire in altra sede che Rûmî ci insegnò "a superare il preconcetto limitante, il condizionamento restrittivo, il ricatto morale ed ogni sentimento egoistico che acidamente semina nelle coscienze terrene l’imposizione violenta di una ideologia, sia essa politica o religiosa che non sia a dimensione umana valida per tutta l’umanità, in grado di insegnare la pace, la tolleranza, il rispetto reciproco. Oggi tutti invocano la pace, ma secondo i concetti del filosofo iraniano Seyyd Hossein Nasr – il massimo esperto di Sufismo, oggi docente all’Università di New York - «essa non è mai raggiunta proprio perché dal punto di vista metafisico è assurdo aspettarsi che una cultura consumistica ed egoistica, dimentica di Dio e dei valori dello spirito, possa darsi la pace. La pace fra gli esseri umani è il risultato della pace con se stessi, con Dio, con la natura, secondo una componente etica che abbia superato false morali, preconcetti, interessi unilaterali e presuntuose ignoranze. Essa è il risultato dell’equilibrio e dell’armonia che si possono realizzare soltanto aderendo agli ideali precipui delle società esoteriche. In questo contesto è di vitale importanza la pace fra le religioni.
«In tema di pace va detto qualcosa a proposito della pace interiore che oggi gli esseri umani cercano disperatamente tanto da aver favorito l’insediamento in Occidente di pseudo-yoghi e di falsi guaritori spirituali. In realtà si avverte per istinto l’importanza dell’ascesa mistica ed etica, ma ben pochi accettano di sottoporsi alla disciplina di una tradizione autentica, la sola che possa produrre effetti positivi». Allora, quando si è atei, quando mancano ideali religiosi o etici o morali, molti si volgono alla droga, che è violenza su se stessi e fuga, oppure alla violenza sugli altri giungendo anche al massacro sistematico di popolazioni inermi o di gruppi etnici diversi dal proprio.
Rûmî scrisse: «Le vie sono diverse, la meta è unica. Non sai che molte vie conducono a una sola meta? La meta non appartiene né alla miscredenza né alla fede; lì non sussiste contraddizione alcuna. Quando la gente vi giunge, le dispute e le controversie che sorsero durante il cammino si appianano; e chi si diceva l’un l’altro durante la strada "tu sei un empio" dimentica allora il litigio, poiché la meta è unica».
Rûmî prediligeva la musica e la danza. Traspare dall’insieme delle sue opere poetiche, e volle anzi che si suonasse e si danzasse anche al suo funerale. Fu anche l’ideatore di uno strumento a corde, il rebâb a sei angoli. Da principio il semà ch’egli istituì era piuttosto informale, e si danzava in ogni luogo, qualsiasi ne fosse l’ispirazione. Somigliava piuttosto ad uno di quei momenti estatici caratteristici della trascendenza mistica dei sufi, detti âhwal (singolare hâl). Solo negli ultimi anni della sua vita Rûmî diede al semà (turco; in arabo: samâc) una struttura fissa, che – dopo la morte di Rûmî stesso - dal figlio di questi, Sultân Walad, venne infine organizzata nei modi attuati ancor oggi.
D’altro canto va considerato che Rûmî prediligeva anche i simboli della teoria pitagorica relativa alla musica e alle sfere celesti, per cui, con il semà, egli coniugava l’una e le altre. Per questo motivo il semà è pervaso anche da un simbolismo cosmico, facilmente identificabile; i movimenti degli atomi o il movimento del sistema solare. Questa è l’ipotesi della più grande studiosa occidentale di Rûmî, Eva de Vitray Meyerovic, ma non è condivisa dall’attuale discendente diretto di Rûmî, il professor Celaleddin B. Çelebi.

E veniamo finalmente alla cerimonia cui assisteremo questa sera, il Samâc (in turco, Semà), detto anche "la danza dell'estasi”.
   Premetto alcune brevissime note introduttive sulla musica turca classica.  Le tipiche forme strumentali base sono tre: taksim, pesrev, saz-semaî.
Il taksim è una introduzione (ouverture): uno strumento che fa parte dell’insieme (usualmente il ney) introduce i temi musicali e con una improvvisazione prepara l’uditorio al contenuto espressivo del makam scelto. Il makam è il modo melodico, o scala modale. Il taksim non ha regole fisse, se non quella di seguire strettamente il makam. Generalmente è diviso in tre parti. Può anche essere collocato in un momento di transizione. (bas taksim: d’apertura; ara taksim: intermedio; ulama taksim: finale).
Al taksim segue il pesrev (preludio): forma tipicamente turca, per solito (dal 1830) in quattro parti (hane), ciascuna seguita da un ritornello, o intermezzo (teslim  o mülâzine), che aggiunto all’ultimo hane forma il finale del pesrev.
Per ultimo viene il saz-semaî, simile al pesrev, ma nel ruolo di “finale”. In entrambi possono venir adottati vari  makam.

Nel suo insieme, tutto il semà rituale ha plurime valenze. Anzitutto: i Mevlevi danzano a Konya un Semà rituale completo la seconda settimana di dicembre per celebrare la morte di Jalâl âlDîn Rûmî. Altamente emblematica, altamente spirituale, questa danza è l’espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come gli atomi, come i pianeti, come il pensiero. Il Semà simbolizza l’ascesa spirituale - viaggio mistico dall’essere a Dio - in cui l’essere si dissolve ritornando poi sulla terra («prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; ed ora che sono giunto so che le montagne sono montagne, e i mari sono mari» disse il grande maestro sufi del IX secolo Dhu âl Nûn âlMisrî).
Partecipano al rito da un lato un gruppo di musici e cantanti (mëtrëp), dall’altro il Maestro (shaykh della Mevlevihane, in funzione di qutub, “polo”), il capo dei danzatori (semazen basë) e i danzatori, che nel rito completo del 17 dicembre a Konya sono diciotto.
La cerimonia è divisa in varie fasi. Il rito inizia con un nait (o naat, Naat âlSherìf, inno di lode al Profeta), o con la recitazione del wird che comprende i dieci passi più importanti del Corano (Âshr  âlSherîf). Questa eulogia è in pari tempo una lode a tutti i Profeti e a Dio che li ha creati. Segue una introduzione (taksim) con improvvisazione di flauto (ney). Un suono di tamburi - seconda fase - simbolizza la creazione del mondo (Corano, 36ª81-82); e poi - terza fase - la dolce melodia di un ney, col suo suono sensibile e delicato rappresenta il soffio divino da cui tutte le creature traggono vita.
Terminato questo concerto, comincia il semà vero e proprio con un inno mevlevi. Mentre il coro accompagnato dall'orchestra inizia a cantarlo, entrano in fila il Maestro, il capo dei danzatori, e i danzatori, coperti da un mantello nero, simbolo dell’ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta, come lenzuolo mortuario, la luce e il distacco dall’Ego. Il Maestro ha un caratteristico copricapo nero avvolto dal turbante nero, simbolo del suo grado, e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso; i dervisci hanno un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la loro pietra tombale. A passi lenti, i dervisci percorrono in senso antiorario (così come si svolge la circumambulazione della Ka`ba) tutto il perimetro per tre volte. E' il devr-i Veledî: il circolo del Sultano Veled, e rappresenta il cîlm âlYaqîn, cayn âlYakîn e haqq âlYaqîn («conoscendo la Certezza, vedendo la Certezza, sapendo la Certezza»).   Poi si fermano su un lato lungo e ha luogo, con un lieve inchino, lo scambio reciproco di saluti. Ciò simboleggia il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza. Se a questo momento i danzatori si siedono, prima di rialzarsi battono all’unisono le palme delle mani sul pavimento. Alla fine i danzatori depongono il mantello nero e, in piedi (simbolo dell’alef, prima lettera dell’alfabeto arabo) rimangono un attimo con le braccia incrociate e le mani sulle spalle (nell’atteggiamento che aveva l'angelo Gabriele quando si rivolgeva al Profeta Muhammad prima di ogni discesa del Corano, e simbolo dell’Unità divina).
 Ha inizio allora la fase più suggestiva, divisa in quattro parti, dette "saluti" (salâm). A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo di feltro, cominciano a roteare su se stessi e - dopo aver allargato le braccia – sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala (devri veledi), la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio, la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i doni ricevuti da Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un’ampia vorticosa immagine dell’Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro “saluti”, interrotti ciascuno da un arresto della musica. Sul finire dell’ultimo “saluto”, il Maestro, "polo celeste" (qutb), compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.
Il primo "saluto" simboleggia la nascita dell’essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento in una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell’esistenza di Dio. Il secondo saluto simbolizza il raggiungimento d'una consapevolezza superiore, in cui l’essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione. Nel terzo saluto l’essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui (fanâ), ed è l’estasi ed il superamento d'ogni transitorietà fenomenica. Il quarto "saluto" simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l’accettazione della materia dopo l’ebbrezza della luce divina. Il viaggio mistico è così finito e il sufi, «morto prima di morire», illustrando i versetti 27-30 della 89ª sura del Corano, ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.
La fase finale (Segan taksimler ve ilâhiler) è agita dai musici e dai cantori che recitano versetti del Corano, in particolare 2ª115. E’ composta da son pesrev, yürük-semaî, asir, dalla Fatiha e da un’ultima preghiera (Mevlevi Gülbank) cantata per tutti i profeti e per tutte le anime dei credenti, e che si conclude con le parole dello Shaykh: «Hu diyelim (Noi Lo vediamo).» Infine tutti esclamano Hu (Egli; e cioè Dio, in assoluto), chiudendo il rito con questa affermazione che trascende il vocabolo “Dio” quasi a significare il superamento d’ogni descrizione possibile della divinità da parte dell’essere umano.
Il sufi, a qualsiasi Confraternita appartenga, compie un cammino evolutivo declinato in sette tappe; ognuna rappresentata da un profeta. Per l’elaborazione d’ogni tappa abbiamo sette simboli, la cui penetrazione aiuta il cammino. Essi sono: suono, luce, numero, lettera, parola, simbolo, ritmo e armonia. Nel semà, in cui si uniscono musica, canto, poesia, pensiero, movimento, luce e colore, troviamo così espressi e presenti tutti e sette questi simboli, in una completezza che trasupera il solo pensiero-azione della preghiera musulmana, e rende così altamente suggestivo e globale questo particolare dhikr dei sufi mevlevi.
Concluderò con quanto Rùmì stesso scrisse del Semà, nel suo Dìvàn-e Shams-e Tabrizî:
Il semà è la pace per l'anima dei vivi,
e chi conosce ciò raggiunge la pace dell'anima.
Colui che desidera il proprio risveglio,
è quello che già dorme in un giardino.
Ma per chi dorme dentro a una prigione
il risveglio è soltanto un dispiacere.
Assisti al semà là dove si celebra un matrimonio,
non quando c'è un funerale, o in un luogo di dolore.
Chi non conosce la propria essenza,
colui ai cui occhi è nascosta questa bellezza lunare,
 che se ne fa della danza e del tamburo?
Il semà è fatto per l'unione con l'Amato;
e per quelli che hanno il viso rivolto alla qibla
ecco, il semà rappresenta questo mondo e quell’altro.
E più ancora: il cerchio dei danzatori di semà
che dolcemente volteggiano ha nel suo centro la Ka`ba.
Se desideri la miniera della dolcezza, ecco, essa è là,
e se ti accontenti d’una briciola di zucchero, ecco: questo dono è gratuito.       

 

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